L’arte, per me, non è solo un mestiere o una forma d’espressione: è un luogo sacro, un tempo altro, uno spazio in cui riesco ad abitarmi davvero. Tra tutte le tecniche che ho incontrato nel mio cammino, l’incisione calcografica è quella che più di ogni altra mi restituisce il silenzio necessario per ascoltare. Non parlo di un silenzio esterno, ma di quello interno — profondo, prezioso, difficile da raggiungere nel frastuono delle giornate. Incidere è per me un atto di presenza. Ogni gesto ha un peso, ogni passaggio richiede attenzione, rispetto, cura. Non si può affrettare, non si può forzare. E proprio in questa lentezza, in questo rallentamento voluto e necessario, accade qualcosa di sottile: la mente si placa, il corpo si allinea, e io posso finalmente ascoltarmi.
Mi accorgo che quando incido, i pensieri si fanno più lievi. La mano si muove seguendo un ritmo più lento, quasi primordiale. Il respiro si fa profondo. Sento che non sto più semplicemente “lavorando”, ma sto entrando in una dimensione altra, simile a quella che si raggiunge nella meditazione. Solo che io non sto seduta in silenzio a occhi chiusi: sto tracciando solchi, sto sporcando le mani, sto lasciando che il segno racconti. E quel segno dice chi sono in un linguaggio che non ha bisogno di parole.
Le parole, a volte, le ho sentite troppo fragili. Troppo rumorose. Non sempre sono riuscita a dire cosa provavo, cosa mi abitava dentro. Ma il segno sì. Il segno inciso ha sempre parlato per me, con una sincerità che nemmeno io sapevo di avere. Certe volte guardo una mia lastra e riconosco emozioni che non avevo ancora saputo nominare. È come se ogni segno, ogni graffio sul metallo, rivelasse una parte nascosta — una verità intima, difficile da dire, ma impossibile da negare.
C’è una bellezza antica in tutto questo. Una ritualità che non ho mai smesso di amare. Ogni fase del processo ha un suo tempo: preparare la lastra, lucidarla, inciderla, inchiostrarla, stampare. Sono gesti che si ripetono sempre uguali, eppure non sono mai uguali davvero. C’è sempre qualcosa che cambia: dentro di me. L’incisione mi ha insegnato la pazienza. Mi ha insegnato l’ascolto. Mi ha insegnato a fare spazio. È una pratica di lentezza che va controcorrente, contro tutto ciò che oggi ci spinge a produrre di più, a correre, a mostrare, a pubblicare.
Nel laboratorio, invece, il tempo si dilata. Si fa profondo. Si fa denso. E diventa un tempo pieno, ricco.
E ogni volta che torno alla stampa, so che non sto semplicemente creando un’immagine. Sto tornando a me stessa. A quel luogo silenzioso in cui tutto si fa chiaro, in cui ogni segno è un passo verso l’autenticità. La lastra, la carta, l’inchiostro diventano specchi. E io mi rifletto in ciò che lascio. Non per raccontare qualcosa agli altri, ma per riconoscere, ancora una volta, chi sono davvero.
Perché nell’arte dell’incidere non si cerca la perfezione.
Si cerca verità.
E, a volte, basta un segno per trovarla!